L’isola di Ponza sta nel mare, anzi ne è tutta circondata. Altrimenti che isola sarebbe? Ma nel nostro caso il fatto assume maggior significato, perché l’isola si chiama così, essendone il nome derivato dal greco pòntos o pontia, che significava appunto mare (notevole che questo sia uno dei pochi casi in cui la versione ufficiale, di solito menzognera, corrisponda alla nostra, sempre veritiera).
Ma perché le diedero quel nome? Appare da documenti da noi rinvenuti, che l’isola sia stata scoperta e popolata nientemeno che dagli abitanti dell’arca di Noè, che lì approdò e non sul Monte Ararat, come ci vogliono far credere.
Sull’arca, dopo decenni di peregrinazioni, avevano una fame tremenda. Così si erano visti costretti a mangiare i bambini. All’inizio i genitori mangiavano i propri, ma poi saltò su un tizio col pizzo e disse che non era giusto, che i bambini dovevano essere messi a disposizione e condivisi (letteralmente) con tutti, anche di chi non poteva averne, ossia dovevano essere messi in comune. Fu così che nacque la storia che i comunisti mangiano i bambini.
Ma ad un certo punto un altro tizio, solo perché il tizio col pizzo gli stava sulle scatole, si oppose alla pratica e convinse tutti che i bambini non si dovessero toccare, pena l’estinzione della specie. Fu così che l’arca si riempì di bambini all’inverosimile, cosicché Noè si vide costretto a porre al bando la copulazione, altrimenti si rischiava di affondare sotto il peso della popolazione. Fu così che la scoperta dell’isola venne accolta come un atto liberatorio e ne seguirono orge durate settimane di fila, dedicate al dio principale della nuova mitologia dell’arca, cioè arcaica: il Pesce Sega.
I primi abitanti dell’isola, grati per lo scampato pericolo e in onore dell’habitat della loro deità sovrana, decisero di dare all’isola il nome derivato dal mare: Pontia, poi Ponza, appunto.
Siccome erano proprio molto grati, fu così che decisero di darsi anche il nome come il mare, nominandosi ciascuno, secondo il sesso, Ponzo e Ponza (si veda in proposito il capitolo sugli abitanti dell’isola ai tempi di San Ponzo).
I Ponzini avevano strane usanze e credenze, derivate dal fatto che erano stati così a lungo isolati e ancora lo erano. Caratteristico era per esempio il loro modo di fare la guerra.
A differenza di qualunque altro popolo, a loro non interessava possedere le terre altrui, ché troppo contenti erano del mare che li circondava e dell’isola su cui abitavano, che ricordava loro la leggendaria arca, il loro periodo arcaico appunto. Però, quando si arrabbiavano di brutto con qualche altra popolazione vicina, decidevano di invaderla. Ma non con gli uomini, bensì con le acque, allagandola. Per loro questo significava estendere il loro dominio, poiché estendevano il mare, che consideravano cosa loro (alcuni, in epoche successive, emigrarono a Sud, su un’altra isola, e vi tramandarono il concetto di Cosa Nostra, che poi assunse derivazioni diverse dalle originarie, ma questa è un’altra storia).
Quando Ponzo venne cacciato dall’isola di Ponza (si veda il capitolo a riguardo), sbarcò a Terracina, detta così perché gli abitanti erano dei terricoli di pelle gialla e con gli occhi all’insù. Ponzo, al comando di un manipolo di fuggiaschi, voleva andare verso Nord e raggiungere la megalopoli Roma, ma le popolazioni locali, spaventate dalla presenza degli isolani stranieri, vi si opponevano. Così Ponzo decise di invadere il territorio: salì su un colle e urinò secondo il suo costume e anche di più, fino ad allagare tutto il territorio sottostante e annegarvi gli abitanti che all’inizio dell’impresa lo deridevano, per cui lui espresse la famosa invettiva: “Ve la do io la piscina!”, talché ancora oggi si suol chiamare così una grande vasca di acqua riscaldata, dove le persone nuotano.
Allagata la pianura, si imbarcò per attraversarla e gridò ai pochi superstiti, arrampicati in cima alle piante (“E mo’ so’ cazzi acidi per voi”), da cui derivò il nome che si diede alla landa allagata: l’Agro Pontino o Ponziano o Ponzano, che dir si voglia. Il quale ci vollero secoli perché venisse bonificato e riacquisito dai locali. Quando il tizio calvo che si vantò di esserne l’autore chiese ai locali a chi avrebbe dovuto dare le terre riemerse, i locali risposero “Ehilà (in dialetto “eja alà”), a noi!”. Al capoccione calvo piacque la risposta e decise di adottarla come forma di saluto e giubilo. Ma anche questa è un’altra storia.